Stella di seta (One- shot)

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  1. Ciry88
     
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    Già pubblicata altrove, ripropongo sempre questa one-shot quando mi si chiede di scrivere di lui. E' il racconto che meglio lo rappresenta ai miei occhi, e forse il lavoro che su di lui mi è riuscito meglio, nel mio piccolo. Io spero che la appreziziate, io ci sono davvero molto affezionata :).



    Una sensazione ineffabile e perturbante l’aveva colpita in pieno petto e, ne era sicura, non l’avrebbe lasciata tanto presto, neanche quando si sarebbe svegliata, il mattino seguente.

    Non era neanche sicura di sognare, comunque.
    Perché sentiva il vento, discreto e fresco alle sue spalle.
    E toccava un pavimento, seppur sconosciuto, con la pianta dei suoi piedi.
    Non c’era odore, né paesaggio, ecco cosa c’era di strano.
    Così strano da farle dubitare della sua sanità mentale.
    Era tutto frutto della sua immaginazione o era veramente finita in un posto così, lontano dal mondo e dimenticato da tutti?

    Ancora più strano era il fatto che la paura non la stesse neanche sfiorando in quel momento.
    Camminava con sicurezza e a testa alta in mezzo al buio, pur ignorando completamente cosa potesse nascondersi al suo interno.
    Non le importava di cadere, di farsi male, di inciampare, di finire in una voragine. Era cosciente di tutti i probabili pericoli, ma una forza sconosciuta persino a lei la rendeva sprezzante del pericolo e sicura di sé.



    Il vento si fece più forte, tanto che il suo corpo fu costretto ad assecondare la sua velocità per non venire travolto; timorosa di finire con la faccia a terra, accelerò il passo e notò con piacere che l’orizzonte stava diventando sempre più chiaro, sempre meno nero…
    Soltanto allora notò che il suolo su cui stava camminando da… ore? minuti?...era fatto di terra, grezza e poco compatta. Ma bianca. Come tutto il resto del paesaggio. Pallido, etereo e poco rassicurante.

    Di colpo sprovvista di tutto quel coraggio che fino ad allora l’aveva tenuta per mano, indietreggiò di un passo o due, tesa e con gli occhi che schizzavano ovunque, alla ricerca di una via d’uscita o di qualcuno che potesse condurla in un posto più sicuro.

    Proprio quando aveva finito di contare sulle sue speranze, una figura apparve in lontananza, facendole venire i brividi per lo spavento.

    Qualcuno di alto e longilineo, vestito completamente di nero. Altro non avrebbe saputo dire.
    La stava raggiungendo con passo elastico e tranquillo, senza toglierle gli occhi di dosso.
    Ammesso che la stesse guardando, visto che…
    Non aveva una faccia.
    La sua cornice, fatta di capelli lunghi e scuri, conteneva solo un ovale lattiginoso, all’interno del quale strani filamenti rossi e blu pulsavano e si gonfiavano, come se… stessero respirando.


    “Che cos’è?” si chiese, atterrita e immobile.

    Da vicino, ebbe modo di capire che di fronte a sé aveva una sorta di spettro. Ma non uno spettro qualunque.


    Ne aveva sempre avuto paura, perché ci aveva sempre creduto.
    Ma li aveva sempre immaginati vestiti di stracci, terrificanti nei loro lineamenti da defunti e pieni di tristezza o di cattiveria nei loro atteggiamenti. Soprattutto, li aveva immaginati evanescenti.

    Lui… lei… o chiunque fosse… non era niente di tutto ciò.

    I suoi vestiti sembravano perfettamente puliti e in ordine.
    Camminava come se fosse vivo, non fluttuava.
    E anche se non aveva un corpo, una pelle, dei muscoli visibili… le sue vene, le sue arterie e anche il sangue che vi scorreva dentro le permetteva di inquadrare la sua fisionomia, seppur solo vagamente.

    Si era avvicinato molto.

    Cercando di non lasciarsi vincere dalla paura, allungò una mano per toccare quell’individuo così apparentemente inconsistente…
    La ritirò subito, sorpresa.
    Era sicura di aver toccato della pelle. Pelle di una guancia. E aveva scatenato una reazione senza neanche saperlo.
    Il sangue sembrò scorrere più velocemente dentro la teca trasparente di quel corpo e un sussurro le raggiunse le orecchie…


    “Ciao…”


    Un semplice saluto. Ma non riuscì a ricambiarlo per lo stupore. Fu solo capace di spalancare ancora di più gli occhi.
    Poteva essere stato il soffio della brezza, o uno scherzo del suo cervello.
    Come poteva aver parlato quell’essere senza bocca e senza voce?

    Il vento si fece più intenso e scompigliò i loro capelli, entrò nei loro vestiti, cogliendo loro di sorpresa.

    Ancora una volta, ebbe la certezza di aver sentito qualcosa.
    Una risata.
    Piccola, breve, spensierata.

    Si scostò i capelli dal viso e si lasciò scappare un “Mio Dio…” trasalito alla vista di un’opaca linea rosata, tendente al rosso, con le estremità piegate in su, esattamente dove una bocca avrebbe dovuto stare.
    Non aveva i contorni ben definiti, la vedeva tremolante, ma c’era e le stava… sorridendo.

    “Tu… parli…” disse, aspettando con ansia una sua risposta.
    “Sì…” replicò la voce, cristallina e sorridente come la bocca che l’aveva fatta uscire.


    Tese una mano verso di lei, come per invitarla a lasciarsi guidare.
    Una patina leggera, ma con la consistenza della carne umana, ricopriva l’arto.


    Afferrò quella mano, sentendola grande e tiepida, e il vento smise di soffiare, gradualmente, con dolcezza.

    “Camminiamo?” le fu chiesto da quella bocca, sempre più ben disegnata.
    Lei si limitò ad annuire con un sorriso a metà tra lo scetticismo e la voglia di fidarsi, poi avanzò al suo fianco.






    La paura e il ribrezzo l’avevano lentamente abbandonata per lasciare spazio alla semplice curiosità e a una punta di scetticismo che, però, a tratti diventava fiducia.

    Aveva scoperto che sdraiarsi su quella terra umida e morbida era piacevole e non nuoceva ai suoi vestiti, che non si macchiavano.
    Teneva la mano a quel fantasma, che stava assumendo una forma sempre più umana e concreta, e si sentiva felice nelle sue conversazioni con lui.
    Come se lo conoscesse da sempre.


    “E che cosa fai qui?” gli chiese, guardando le nuvole lattee nel cielo bianco brillante.
    “Aspetto…” rispose l’altro, con la voce ormai ben formata, non più solo un bisbiglio.

    Aveva capito che doveva essere un ragazzo, un bambino, comunque qualcuno di sesso maschile.
    Aveva la voce più fine e musicale che lei avesse mai sentito. Avrebbe voluto far parlare sempre e solo lui.

    “Che cosa aspetti?” gli domandò, aggrottando leggermente le sopracciglia con fare dubbioso, ma senza voltarsi a guardarlo.
    “Aspetto di partire…” replicò lui con voce serena.
    “Partire? E dove andrai?”
    “In un posto meraviglioso…” .


    Un sospiro di sollievo nella sua voce la fece voltare per guardarlo in faccia.

    Sorrise, il cuore che le batteva a mille.

    Poteva vedergli i piedi, le mani, il collo, le caviglie, i polsi.
    La faccia.

    Sembrava fatto di acqua.

    Ancora non aveva i lineamenti ben definiti.

    Solo due macchie opache, acquose e scure al posto degli occhi… una linea dritta in mezzo al viso che disegnava un naso… e un sorriso sempre più aperto e ben visibile che sembrava chiederle che cosa ci fosse di tanto strano da guardare.


    “E in tutto questo io che ruolo ho?” gli domandò, alzandosi su a sedere.
    Lui la imitò, sospirò tristemente per poi recuperare il suo sorriso, che però si era incrinato, e rispose: “Volevo che lo sapessi. Sarà un viaggio da cui non farò ritorno. Non voglio tornare mai più.”

    Non capiva.

    “Perché avverti me, se neanche ti conosco? Non dovresti avvertire la tua famiglia, se te ne stai andando?”

    La fissò con i suoi occhi neri, che divennero due piccoli cerchi ben disegnati, intenti a costruirsi le pupille, le cornee, le iridi…
    “Ti ho avvertita per salutarti… per ringraziarti… Volevo che tu sapessi che io starò bene e che voglio che anche tu stia bene, qualsiasi cosa succeda. Mi hai capito bene?”


    Senza nemmeno sapere perché, iniziò a piangere, costernata, mentre stringeva quelle mani fatte di seta.

    “Mi dici come faccio a stare bene sapendo che non tornerai più?!” si lasciò scappare, improvvisamente arrabbiata, tra i singhiozzi.

    Vide quegli occhi sentirsi in colpa, le sopracciglia piegate in un’espressione triste.
    “Ti prego, non cercare di trattenermi… mi faresti solo del male! E io non voglio più soffrire… Mi capisci?” le chiese, sull’orlo delle lacrime.

    No, non capiva. Non del tutto, almeno.
    Però forse quel ragazzo aveva davvero bisogno di andarsene…
    E lei, che neanche lo conosceva, che diritto aveva di trattenerlo?


    “Una volta che sarai partito… non ti vedrò mai più, vero? Mi dimenticherai? E io dimenticherò te? Funziona così?” domandò, amareggiata e sempre più triste.
    “No! No…” la contraddisse lui, scuotendo la testa “Io mi ricorderò sempre di te. E di tutti gli altri. E tu ti ricorderai sempre di me. Te lo assicuro…”

    Avrebbe voluto chiederle chi erano quegli “altri”, o magari anche come avrebbe fatto a conservare un suo ricordo, visto che lui non aveva nemmeno un viso…
    Però non fece in tempo a dire una parola.


    Il vento riprese a soffiare, acquistando potenza e velocità ad ogni secondo che passava.

    Ben presto si ritrovarono in una tempesta di polvere bianca.

    Lei si alzò, barcollante, e provò a muovere qualche passo verso di lui, ma senza successo: il vento le sconvolgeva i capelli, le faceva andare il pulviscolo negli occhi e la faceva cadere a terra.

    “Dove sei? Dove sei?!” gridò tutt’a un tratto, non scorgendo più i suoi vestiti neri.

    Decisa a trovarlo, a salutarlo per l’ultima volta, a volerlo vedere in viso prima che fosse troppo tardi, si alzò per l’ennesima volta e cercò di mettersi a camminare.



    Stava per cadere di nuovo, faccia a terra.
    Qualcuno la sollevò.
    Due mani delicate e forti la portarono su, verso quel cielo di un bianco accecante.


    L’abbraccio che seguì fu come un lampo, un flash colmo di rivelazioni che le attraversò il cervello.
    E che quasi le spezzò il cuore.

    D’istinto, lo strinse più forte che poté e aprì gli occhi, fino ad allora tenuti socchiusi a causa della sabbia che era entrata al loro interno.
    Il corpo che la stringeva si staccò da lei.


    Si guardarono.


    “Io starò bene e sarò sempre con te!” le disse il ragazzo, raggiante.

    Lei lo riconobbe all’istante e pianse disperata.
    Avrebbe dovuto saperlo fin dall’inizio che era lui.

    Non ebbe il cuore per gridargli di no. Non volle negargli niente.
    Annuì soltanto, cercando di sorridere, e accarezzò quel viso così familiare.

    Era seta sotto le sue dita.

    Lo lasciò andare e, per un istante, smise in respirare, mentre chiudeva gli occhi.









    Quando li riaprì, era nella sua stanza.
    Naturalmente.

    La tappezzeria a fiori, le tende color pesca.
    Niente bianco.

    Il parquet liscio sotto il suo letto.
    Niente terra bianca e umida.

    Caracollò confusa verso il bagno, comunicante con la sua camera, e si lavò la faccia a lungo, cercando di svegliarsi del tutto.
    Non sapeva cosa pensare.

    Si morse il labbro inferiore con apprensione, tornando con il viso asciutto nell’altra stanza, e accese la televisione, come tutte le mattine, mentre già si era mossa per rifare il letto.

    Primo tasto sul telecomando: pubblicità.
    Secondo tasto: telegiornale. Non aveva voglia di seguirlo, non di prima mattina.
    Terzo tasto: telefilm degli anni 90.
    Quarto tasto: pubblicità.
    Quinto tasto: edizione straordinaria di un telegiornale. Che noia.
    Sesto tasto: videoclip di “Thriller”.
    Settimo tasto: videoclip di “Will you be there” live.
    Sesto tasto: videoclip di “Thriller”.
    Settimo tasto: telegiornale. Si fermò ad ascoltarlo.

    “E questo era il servizio della nostra inviata a Los Angeles, che ora ci aggiornerà in merito alla morte improvvisa di Michael Jackson. Già milioni i messaggi di cordoglio da tutto il mondo per il trapasso prematuro dell’artista americano, inventore del moonwalk…”

    La federa del suo cuscino le cadde di mano e le ginocchia cedettero, scontrandosi dolorosamente con il pavimento di legno.

    Pianse. Pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, senza sentire il resto della notizia, senza muoversi da sopra le sue ginocchia rosse e doloranti.

    Singhiozzò e tirò su con il naso così tanto da sentire la testa girare.

    Si rannicchiò sul pavimento, continuando a soffrire silenziosamente, e con la coda dell’occhio notò il suo poster preferito attaccato alla porta.

    Le sorrideva, pieno di vita, ai tempi di “Bad”. Era uno screenshot del suo film, “Moonwalker”.

    Si calmò davanti a quegli occhi vivaci e decise di alzarsi, anche perché aveva iniziato a sentire il dolore alle gambe.



    Si sedette con calma sul letto, asciugandosi le lacrime, e spense la televisione per poi fissare nuovamente il suo sguardo sul poster.

    Le tornò in mente il suo sogno, così vero e pieno di significato.

    Si sentì enormemente triste, tanto che sentì di voler piangere di nuovo, nonostante i venti minuti di pianto ininterrotto.

    Ma abbozzò un sorriso sotto le sue guance bagnate.

    “Hai detto che starai bene, finalmente…” pensò, leggermente sollevata.



    Si aggrappò a quel pensiero con tutte le sue forze.
    Poi arrivò a crederci.

    Finì per esserne pienamente cosciente, dopo giorni, mesi.
    E da quel momento non soffrì più per lui.

    Sapeva che stava bene.
     
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  2. •Nikit@•
     
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    Molto bella, scrivi davvero bene :) Complimenti cara ^^
     
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  3. Cocoi
     
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    Molto emozionante... Veramente! Magari l'avessi incontrato io! :(
     
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2 replies since 11/4/2010, 21:25   102 views
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